martedì 8 settembre 2015

L'INSALATA DI POMODORI DI NONNO GIULIO



D’estate, da bambina, spesso pranzavo con mio nonno. Erano pranzi veloci, come si direbbe adesso: freschi e dietetici. Quasi sempre fatti di pomodori e cipolla, ogni tanto patate e fagioli, quasi mai carne e ravioli.

Il nonno tagliava i pomodori facendoli saltare allegramente sulla mano sinistra, li faceva ruotare sul palmo della mano, in una danza che mai sono riuscita ad imitare. Sembrava contemplarli delicatamente, osservandone la precisione e allo stesso tempo, come per trovare il punto migliore, il più adatto, per l’incisione. Nella destra, tra pollice e indice, teneva il suo coltellino svizzero dalla lama molto affilata, quasi esausta per i continui sfregamenti sulla pietra blu del Belgio, che per il nonno era importante almeno quanto lo stesso coltello, se non di più. Strumenti preziosi e fondamentali in quei difficili anni di prigionia marocchina; giorni in cui da affilare non c’era altro che la fame e la sete.
   
“ Qualche volta nascondevamo in tasca una patata di quelle che scavavamo per il padrone, il primo dei tanti era un francese, ci dava un chilo di pane da dividere in dodici, quando ti arrivava in mano ti veniva quasi da piangere per quanto era poco. Una volta, lungo la strada, delle donne coperte dalla testa ai piedi, ci hanno dato da bere del latte per un soldo. Lo bevvi tutto di un fiato. Era dolce, temevo fosse avvelenato, ho avuto davvero paura di morire. Si diceva anche questo nel campo, che i marocchini ci volessero avvelenare. Lo dicevano per non farci prendere cibo da loro, per farci morire meglio di fame. Era latte d’asina, poi seppi, dolce per natura. Ma io allora non conoscevo altro sapore che quello del latte delle mucche al pascolo sulla piana della mia terra lontana. Quello d'asina non lo bevvi mai più”.


Dopo l’ultimo ballo il nonno iniziava a tagliare le fettine di pomodoro, precise, tutte uguali fino all’ultima, fin quando il pomodoro si consumava nelle sue mani grandi e nodose. Mani sproporzionate al resto del corpo, mani che affondavano nella terra della vigna e dell’orto, che sfregavano i palmi sul manico della zappa, dall’alba al tramonto, che prima ancora, dopo la guerra, avevano cercato di cambiare il loro destino nella calce e nel cemento dei nuovi Buildings oltreoceano. 

“Palazzi grandi. Grattaceli, alti sapessi quanti piani… li a lavorare eravamo di tutte le razze, tutto il giorno a fare il manovale. La sera poi a contare i soldi da mandare a casa, a tua nonna per comprare la terra, e per campare, che già c’erano tre figli”. 

Il racconto del nonno era affascinante e cominciava sempre allo stesso modo, ma si arricchiva ogni giorno di nuovi particolari. Giungeva fino ai giorni nostri, in quella cascina con la pergola e la gebbia per l’orto e le mucche, su quella terra fertile, nera e sottile comprata con i buldings americani. Era il momento di prendere un altro pomodoro dalla ciotola, scegliendolo sempre con accuratezza, prima con gli occhi e poi con le grandi mani nodose. I gesti sempre precisi i tagli sempre netti: per fare un’insalata di pomodori mio nonno ci metteva un secolo, se tralasciamo il tempo della scelta degli stessi pomodori sulla pianta. Ma era il tempo necessario per dedicare a quei pomodori tutto il suo rispetto e la sua riconoscenza per essere arrivati sulla sua tavola e averlo sfamato. Consumare quel cibo quotidiano era un rito, che lui, meglio di chiunque altro, sapeva non essere, dopo tutto tanto scontato.


Finiti i pomodori era il momento della cipolla, le lacrime solcavano il mio viso, ma non il suo, arido come quel deserto che un tempo gli aveva insegnato che con le ingiustizie e la miseria bisogna farci i conti da giovani se da grandi si vuole arrivare lontano. Un poco di peperoncino perché il cuore ogni tanto ha bisogno di una piccola spinta per battere meglio, olio, origano, sale, quanto basta a rendere tutto meno insipido. E olio, tanto, e buono degli uliveti della nonna, che il motore viaggia meglio se lo si accompagna lentamente. La nonna che in silenzio ascolta e sbuffa, di un racconto scotto, ricotto e accomodato in tavola, ancora una volta, ancora domani. 

“E fu così che la memoria vecchia si mangiò la nova”.




1 commento:

  1. Ogni storia, scritta, parlata, urlata, ATTINGE al vissuto di ognuno di noi. Spesso intinge le dita appena per poi spalmare il contenuto altrove. Altre volte immerge le mani completamente. Ma chi può dire come si amalgamerà l'impasto? Quanto lontano arriverà?

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