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D’estate, da bambina, spesso pranzavo con
mio nonno. Erano pranzi veloci, come si direbbe adesso: freschi e dietetici. Quasi
sempre fatti di pomodori e cipolla, ogni tanto patate e fagioli, quasi mai
carne e ravioli.
Il nonno tagliava i pomodori facendoli
saltare allegramente sulla mano sinistra, li faceva ruotare sul palmo della
mano, in una danza che mai sono riuscita ad imitare. Sembrava contemplarli
delicatamente, osservandone la precisione e allo stesso tempo, come per trovare
il punto migliore, il più adatto, per l’incisione. Nella destra, tra pollice e
indice, teneva il suo coltellino svizzero dalla lama molto affilata, quasi
esausta per i continui sfregamenti sulla pietra blu del Belgio, che per il
nonno era importante almeno quanto lo stesso coltello, se non di più. Strumenti preziosi
e fondamentali in quei difficili anni di prigionia marocchina; giorni in cui da
affilare non c’era altro che la fame e la sete.
“
Qualche volta nascondevamo in tasca una patata di quelle che scavavamo per il
padrone, il primo dei tanti era un francese, ci dava un chilo di pane da
dividere in dodici, quando ti arrivava in mano ti veniva quasi da piangere per
quanto era poco. Una volta, lungo la strada, delle donne coperte dalla testa ai
piedi, ci hanno dato da bere del latte per un soldo. Lo bevvi tutto di un fiato. Era
dolce, temevo fosse avvelenato, ho avuto davvero paura di morire. Si diceva anche questo
nel campo, che i marocchini ci volessero avvelenare. Lo dicevano per non farci
prendere cibo da loro, per farci morire meglio di fame. Era latte d’asina, poi seppi, dolce per
natura. Ma io allora non conoscevo altro sapore che quello del latte delle mucche al pascolo sulla piana della mia terra lontana. Quello d'asina non lo bevvi mai più”.
“Palazzi grandi. Grattaceli, alti sapessi quanti piani… li a lavorare eravamo di tutte le razze, tutto il giorno a fare il manovale. La sera poi a contare i soldi da mandare a casa, a tua nonna per comprare la terra, e per campare, che già c’erano tre figli”.
Il racconto del nonno era affascinante e cominciava sempre allo stesso modo, ma si arricchiva ogni giorno di nuovi particolari. Giungeva fino ai giorni nostri, in quella cascina con la pergola e la gebbia per l’orto e le mucche, su quella terra fertile, nera e sottile comprata con i buldings americani. Era il momento di prendere un altro pomodoro dalla ciotola, scegliendolo sempre con accuratezza, prima con gli occhi e poi con le grandi mani nodose. I gesti sempre precisi i tagli sempre netti: per fare un’insalata di pomodori mio nonno ci metteva un secolo, se tralasciamo il tempo della scelta degli stessi pomodori sulla pianta. Ma era il tempo necessario per dedicare a quei pomodori tutto il suo rispetto e la sua riconoscenza per essere arrivati sulla sua tavola e averlo sfamato. Consumare quel cibo quotidiano era un rito, che lui, meglio di chiunque altro, sapeva non essere, dopo tutto tanto scontato.
Finiti i pomodori era il momento della
cipolla, le lacrime solcavano il mio viso, ma non il suo, arido come quel
deserto che un tempo gli aveva insegnato che con le ingiustizie e la miseria bisogna
farci i conti da giovani se da grandi si vuole arrivare lontano. Un poco di
peperoncino perché il cuore ogni tanto ha bisogno di una piccola spinta per battere
meglio, olio, origano, sale, quanto basta a rendere tutto meno insipido. E olio,
tanto, e buono degli uliveti della nonna, che il motore viaggia meglio se lo si
accompagna lentamente. La nonna che in silenzio ascolta e sbuffa, di un
racconto scotto, ricotto e accomodato in tavola, ancora una volta, ancora
domani.
“E fu così che la memoria vecchia si mangiò la nova”.
“E fu così che la memoria vecchia si mangiò la nova”.
Ogni storia, scritta, parlata, urlata, ATTINGE al vissuto di ognuno di noi. Spesso intinge le dita appena per poi spalmare il contenuto altrove. Altre volte immerge le mani completamente. Ma chi può dire come si amalgamerà l'impasto? Quanto lontano arriverà?
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