Writing and Reading

La Cantastorie di Calabria



La prima volta che incontrai Francesca Prestia  fu ad una cena musicale organizzata da Angela Crudo e dalla sua Accademia Musikè, a Vibo Valentia.
Sulla spalla, delicato come un Sari, indossava il Vancale Calabrese, indumento prezioso e raffinato che, in varie tonalità, accompagna sempre la nostra cantastorie nelle sue esibizioni; in mano la chitarrina battente e, una voce roca, che quasi sembra tradire un raffreddore appena passato.
Bella e sorridente, nel suo modo di parlare chiaro e coinvolgente, ci racconta subito un aneddoto, sfatando uno dei tanti stereotipi attribuiti ai calabresi: “quando vado in giro per l’Italia con le mie storie, tutti si aspettano di trovare una donna scura, non proprio alta, né tanto bella e, certamente dalla corporatura generosa. (“composta” avrebbe detto mia nonna che non amava sentirsi dire di essere robusta o generosa).
Francesca Prestia infatti non è nulla di tutto ciò. E' una donna elegante, di bella presenza, ma diciamo pure bella e basta, bionda e, decisamente non “composta”. 
Al momento di cantare, la raucedine sparisce e, ogni parola, ogni nota della sua chitarrina ti lascia impressa un’emozione.
Sapevo già che un giorno avrei scritto di lei e già quella volta presi i miei veloci e disordinati appunti. Ora eccomi a cercarli tra le tante note del mio iPhone. Oggi come allora a rivivere gli stessi pensieri e le stesse emozioni. 

Francesca Prestia canta la Calabria che nemmeno i calabresi conoscono, figuriamoci chi calabrese non lo è. Frantuma gli stereotipi e racconta le verità che mai nessuno ha voluto davvero ascoltare. 
“La storia andrebbe riscritta", dice Francesca, "e ce ne sarebbero di cose da cambiare”. Ma, senza recriminare: lei con la sua arte costruisce e non smonta nulla, se non le conoscenze. 
La Prestia è una che studia, che rispolvera lingue sepolte, che scava nella memoria di chi ancora ricorda. La storia dell’Italia è partita dalla Calabria, certo. E certamente i calabresi hanno dato il loro sangue per una terra che sempre più spesso li rilega ai margini. Eppure di autori che hanno cantato la Calabria ce ne sono tanti. Penso solo ad alcuni, Corrado Alvaro, Saverio Strati, Mario La Cava, penso al cinema, alla musica. Quanto ha avuto la musica dalla nostra terra? Mia Martini la sento vicina in questo mio racconto, perché in qualche modo mi fa pensare a Francesca.
Attori, scrittori, uomini di successo e di coraggio, che spesso, per necessità, sono dovuti andare via. Ma, come diceva Pavese... “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti". Sono certa che ogni calabrese sa, cosa voleva intendere il grande Pavese. Ma tra i tanti che vanno via, c’è chi sceglie faticosamente di restare; chi sceglie il nuovo partendo dal vecchio, chi guarda avanti e si muove, tornando sempre dove tutto è partito. Come fa la cantastorie di Calabria. 
Ovunque ci sono problemi. Ovunque c’è qualcosa che andrebbe meglio se solo si…
Ma diciamoci la verità: è ora di smetterla con questo continuo compatimento! Questa cosa di guardare il bicchiere sempre mezzo vuoto. Questo buttarsi indietro per paura di andare avanti.  Oggi siamo cittadini del mondo. E in questo mondo prima di tutto siamo europei, poi italiani e poi, calabresi. Bisogna iniziare a farci l’abitudine, a ragionarci sopra in modo costruttivo. Ognuno di noi fa parte di questa grande e variopinta popolazione universale, ed è una cosa meravigliosa esserci, ognuno di noi con il proprio contributo.
Il vero pensiero allora è: se solo io… facessi, fossi, iniziassi, provassi, costruissi, inventassi. 
Ma torniamo a Francesca Prestia e alle sue storie cantate, altrimenti so già che mi perderei troppo in fronzoli.
All’Accademia Musiké ha cantato diverse ballate non incluse in questo straordinario cd, ma mi auguro che entreranno a far presto parte di un altro.
Ricordo con gioia la rivisitazione della celebre opera di Ruggero Leoncavallo, “Pagliacci” che viene cantata e cuntuta dalla cantastorie con le parole del dialetto di Montalto Uffugo. Leoncavallo si ispirò ad un fatto accaduto realmente nel paese cosentino, un episodio cruento che dovette rimanere particolarmente impresso nella giovane mente del compositore. La Storia di Nedda cantata dalla Prestia, lascia dentro una sensazione di affanno e felicità insieme. Come quando la tristezza della fine si mescola alla magnificenza del risultato. Chi conosce l’opera, soprattutto nella versione in cui il grande Pavarotti interpreta Canio, il pagliaccio tradito dalla moglie Nedda, sa di cosa parlo.
Ispirandosi al Racconto di Corrado Alvaro "Il ritratto di Melusina" la cantastorie di calabria compone una tarantella, dal titolo "Comu L’ortica e u Boccaleona. Racconta la storia di Melusina, una giovane che vive ormai quasi sola, in un paesino di montagna, tutti ormai sono andati via, emigrati in cerca di un futuro migliore. Melusina viene ritratta controvoglia da un pittore di passaggio, che vedendola rimane profondamente colpito dalla sua bellezza. In un tempo in cui per le donne era sconveniente mostrarsi persino in foto: “ccu l’occhi chiusi, i mani accoppati, stacisti ferma e iddhu guardava”. Con occhi chiusi, e mani nascoste, sei rimasta ferma mentre lui guardava. 
I testi che arricchiscono il cd sono davvero preziosi, in alcuni casi come per le ballate in grecanico sono davvero fondamentali.

Il grecanico è la lingua che più di tutte alimenta il nostro backgrund culturale, è la lingua della Calabria greca, ciò che rimane di vivo del nostro essere stati greci.
I AGÀPI PIRÌA TU THIÚ tratta dal "Cantico dei cantici" di Re Solomone, curata da Salvino Nucera, è la canzone che più ha scosso le corde del mio cuore. Perché in fondo siamo tutti un po’ romantici, ma forse io lo sono un po’ troppo.

Francesca ha cantato questa canzone con Roberto Vecchioni, la prima volta che ne ho sentito un breve estratto sulla sua pagina Facebook ho sentito che dovevo assolutamente trovarla da qualche parte, non sapevo ancora che quel momento sarebbe arrivato proprio qui, a Lamezia, alla Libreria Tavella, dove ero già stata qualche anno fa per incontrare Silvia Avallone, e Dacia Maraini.
Roberto Vecchioni che canta in grecanico con Francesca Prestia, lei che racconta del come è avvenuto l’incontro e la gioia la vedi ancora, perché si intuisce dalle sue parole. Canta di nuovo per noi che siamo venuti a sentirla, e sullo sfondo insieme alle parole e agli accordi scorrono le immagini che nell’arte hanno celebrato l’amore: amore e psiche del Canova , Apollo e Dafne del Bernini, Klimt e il suo celebre bacio.  Ad un certo punto Vecchioni si mette a ballare intorno a Francesca. Aveva visto L’amore, ci racconterà lei dopo, con gli occhi scintillanti. Perché per cantarlo, l'amore, bisogna soprattutto sentirlo.

La Calabria è stata una regione aperta e Multietnica molto prima che lo fosse l’Italia intera. Penso agli Arabi della cui lingua e cultura conserviamo molto nella nostra quotidianità.
Alle comunità albanesi dell’alto cosentino, gli Arbëreshë. Francesca Prestia ha promesso che presto la sentiremo cantare in questa lingua. E poi vuole studiare anche lo Yiddish. Ve l’ho detto che è una che studia sodo.

Ma la nostra Cantastorie non canta solo il passato. Il femminicidio è un tema che le sta molto a cuore ne parla già nella storia di Leoncavallo e torna nel presente con la Ballata di Lea, dedicata a Lea Garofalo e a sua figlia Denise.
Il bello di questi incontri arriva quando lei inizia a raccontare i retroscena, da dove arrivano e come nascono le sue storie, sono anche e soprattutto questi piccoli segreti rivelati, che rendono ciò che fa ancora più affascinante. No smetteresti mai di ascoltarla raccontare. La nascita della ballata di Lea, è dovuta alla lettura di un piccolo trafiletto sul giornale: “Sognava l’Australia”. Dal giornale dunque apprende la storia di Lea Garofalo, della sua lotta contro la famiglia mafiosa e, della sua terribile fine. Immediata è la necessità di scrivere. La storia di Lea entra a far parte di un progetto del Miur che la Prestia porta in giro nelle scuole italiane, affinché tutti, soprattutto i più giovani possano alimentare con il proprio contributo la cultura dell’antimafia. Con La ballata di Lea la cantastorie capisce che il suo contributo può andare oltre la trasmissione del passato, anche il presente, può e deve essere raccontato.
Non solo Lea Garofalo dunque. Partendo dalla lettera della collaboratrice di giustizia, Giuseppina Pesce, alla figlia Angela, la cantastorie scrive e dedica a questa donna coraggiosa una ninna ninna tradizionale calabrese, dal tono struggente, parole che solo una madre che per i figli darebbe l’anima può intendere.
Il presente torna ancora nella ballata Mare Nostrum, canzone che da il titolo anche al disco. Ancora una volta uno dei grandi problemi del nostro secolo. Forse è proprio qui in Calabria, che più di ogni altra regione, noi ci sentiamo Mondo. Chi approda sulle nostre coste come Nijat, la protagonista della canzone, questo lo sa. Noi ancora non lo abbiamo capito. Per Nijat e per molti come lei, noi siamo il mondo, la salvezza, la speranza. Noi che ci lamentiamo di tutto e che abbiamo tutto, noi che siamo il loro Tutto e che diciamo di non avere mai niente.
Mare Nostrum nasce dall’incontro di Francesca Prestia con questa giovane donna Etiope. Nijat, racconta la difficile storia della sua fuga. Francesca le chiede come abbia potuto resistere a tutto ciò che ha vissuto. E Nijat risponde con una frase semplice, sussurratale dalla madre al momento dei saluti, gli stessi che in gola lasciano l’amaro degli addii: Ezi win yihalif! Ezi win krwiew yu! Tutto passa! Tutto Passerà!
In fondo è sempre così. Tutto passa. Anche per chi è meno fortunato di Nijat, anche in questo Mare Nostrum, tiepido e caldo, che sempre più spesso si macchia di atroci sofferenze. Tutto passerà, forse, chissà.
È difficile continuare, soprattutto se mentre scrivi la mente ti propone le immagini delle carrette degli ultimi giorni. Ti sembra quasi di vederla Nijat in mezzo alla sua gente; ti sembra di poter dare una immagine ad ognuna delle parole che compongono il testo di Mare Nostrum. Ed è difficile, davvero, continuare.

Saranno passati tre anni dal nostro primo incontro. Di strada in questi anni la nostra cantastorie ne ha fatta tanta. L’ho sempre seguita sulla sua pagina Facebook e ho sempre gioito dei suoi piccoli successi. 
Ci siamo incontrate dal vivo altre volte e ogni qualvolta so di una sua esibizione in zona non perdo mai l’occasione di andare ad incontrala. 
Il 16 Maggio alla libreria Tavella a Lamezia Terme la gioia è stata ancora più grande perché ho avuto il piacere di portare a casa con me il suo primo Cd. 
Oggi canto anch’io in una lingua che non conosco. Eppure sembra cosi semplice. Come se esistesse già dentro di me.
Pòsson Isson Pìszilo, fìlimu, pòsson pìszilo!
La musica riecheggia per la casa. Dalla finestra aperta prende il volo, sembra di vivere sospesi a mezz’aria, in un tempo che ora non c’è più.
Ed è affascinante. È una musica che ti alza la pelle, una voce che ti vibra dentro, scivola dietro la nuca, dove tutto ha origine e fine.
Pòsson isson pìszilo,
fìlimu, posson pìszilo!
Pòsson isson pìszilo,
Agapimmènomu, posson isson calò!
Alìthia, glicìa, plenglicìa
Tu crasìu ene ta chilisu.
Sìremu apìssusu, trèchome!

 Siremu apìssusu, trèchome!





Stoner di John Williams


Le mie considerazioni (a caldo) dopo la meravigliosa lettura.


La vita di William Stoner è una vita mediocre, si consuma lentamente senza molte pretese. Di lui nessuno avrà un ricordo speciale, “… per i più giovani il suo nome è solo un suono, che non evoca alcun passato o identità particolare…”.A volte domandiamo qualcosa solo per riempire un imbarazzante momento di vuoto, per apparire agli altri meno disinteressati, ma sappiamo bene che la risposta non avrà alcuna importanza, vagherà inutilmente nel cervello in cerca di uno spazio libero, senza trovarlo.“… di rado la curiosità si spinge oltre la semplice domanda occasionale… ”.




Stoner è il romanzo sulla vita di un uomo, che non è nemmeno un personaggio di quelli che si definiscono eroi letterari, di eroico il protagonista fa ben poco, è semplicemente un uomo che vive la sua vita triste, in un periodo storico altrettanto triste.



Ma è semplicemente il più bel romanzo sulla vita di un uomo che sia stato mai scritto. O che io abbia mai letto!



Nasce nel 1891 a Booneville, povero contadino in una terra arida e ostile, muore nel 1956 a Columbia, povero professore di una piccola università senza troppe ambizioni. Per tutta la vita non si sposterà mai dal Missuri. Mai ne sentirà il bisogno. Quasi che il mondo lo spaventasse, nella sua vastità.Di questi 65 anni sappiamo tutto di lui. La vita di Stoner attraversa gli avvenimenti storici del ventesimo secolo, ma l’autore, John Williams, li dipinge in punta di penna, il protagonista viene attraversato dagli eventi, ma non si perde mai in essi, il riferimento storico è sempre leggero ed essenziale. Durante la prima guerra mondiale diventa professore, ma la guerra si porta via il suo caro amico Dave Masters; il proibizionismo fa da cornice ai primi anni di matrimonio; la caduta di Wall Street seguita dalla grande crisi economica mette in ginocchio le sue finanze, l’ipoteca sulla casa; la seconda guerra mondiale si porta via il marito della figlia e rade al suolo la popolazione universitaria.



Ma non sono questi i temi principali del romanzo di Williams. Il tema fondamentale è la resistenza. A Stoner succede di tutto. Soprattutto tutti sembrano accanirsi su di lui, senza motivo. 


La moglie con il suo isterismo-egoismo suscita rabbia nel lettore, ma mai una volta che succeda a Stoner, di provarla. L’accanimento di lei nel distruggerlo avrebbe fatto reagire chiunque, soprattutto quando per farlo usa la figlia, Grace. Ma non Stoner, lui accetta in silenzio. Una sorta di stoicismo Stoneriano, o semplicemente indifferenza assoluta. La moglie soffre delle piccole felicità del marito, odia il marito di un odio che non ha motivo di esistere. Fa di tutto per renderlo infelice, prima privandolo della figlia di cui lui si occupava spesso e con la quale aveva un rapporto meraviglioso, poi privandolo dell’unico spazio in casa di cui si era appropriato, lo studio, ossia il mondo per lui.Quando finalmente riesce ad essere felice nella relazione d’amore con Katherine Driscoll, c’è qualcun altro, disposto a tutto pur di renderlo ancora una volta infelice. Stranamente non è la moglie, che pure sa della relazione, ma non se ne preoccupa più di tanto, addirittura la vita coniugale sembra quasi migliorata da quando Edith sa della relazione, chiama l’amante del marito  la “tua amichetta” ma senza rabbia o gelosia.  

Entra qui in gioco Lomax, un collega offeso fisicamente, dal viso bello ma ambiguo. Fin dal suo arrivo il lettore aspetta di scoprire come e quando questa ambiguità si paleserà ai danni di Stoner. Succede sul lavoro. Diventato direttore del dipartimento, Lomax, per un rancore personale, tormenterà Stoner fino alla fine dei suoi giorni, togliendogli la serenità nell’unico luogo in cui ancora poteva sperare di trovarne un po’. È costretto così a rinunciare all’amore, sopraffatto dall’incapacità di lottare per esso.



Paura di affrontare la vita la sua? Forse. Succede anche durante la prima guerra mondiale, i suoi amici di sempre si arruolano. Dave parte, Gordon parte, lui resta. Una piccola vittoria sulla vita passiva che conduce (una cosa che leggendo mi ha fatto davvero esultare rendendomi fiera di lui), avviene nel momento in cui con profonda decisione, boccia il protetto di Lomax, un certo Walker, che come Lomax è storpio. Qui Williams lascia un po’ al lettore la scelta delle ipotesi che si aprono su questo strano personaggio. E cioè Lomax sa che Walker è incapace di insegnare ma lo protegge perché accomunati dalla deformità fisica, oppure Lomax ritiene davvero che sia in gamba come fa credere? Come si suol dire: ai posteri l’ardua sentenza. Ognuno dei lettori del libro, (se non lo avete letto, FATELO!) si farà la sua opinione.



Ad ogni modo Stoner lo ritiene pigro, disonesto e ignorante, incapace di insegnare e quindi di prendere il dottorato. L’impossibilità di scendere a compromessi, il modo irremovibile con cui affronta Walker, rende l’idea di ciò che per Stoner è l’insegnamento: una vera missione!Lomax con lui sarà spietato. Stoner ne accetta le conseguenze senza battere ciglio anche quando la vendetta di Lomax si scatena sulla Driscoll, costringendoli a mettere fine alla loro relazione e causando la partenza improvvisa di lei. Stoner non la vedrà mai più.



Da allora sarà un continuo decadimento, sia fisico, che morale. Stoner starà veramente male per la prima volta d’estate, subito dopo che Katherine è andata via. Lomax continua a rendergli il lavoro impossibile. Gli toglie il seminario sulla letteratura medioevale e gli affida le lezioni di letteratura base per le matricole. C’è un altro episodio di coraggio che fa esultare il lettore, quando Stoner, finalmente stanco di quella situazione, straccia il calendario affidatogli da Lomax e cambia i programmi dei corsi affidatigli, rendendoli non adatti agli studenti dei primi anni. Questo farà andare Lomax su tutte le furie, ma non avendo alcun potere in merito è costretto a riaffidargli i suoi vecchi corsi e il suo prezioso seminario.



Nella post fazione dell’edizione 2012 pubblicata da Fazi editore, Peter Cameron definisce il lavoro di John Williams, quasi miracoloso. Lo scrittore fa della vita di William Stoner “…una storia appassionante, profonda e straziante”.Frustrazione è il sentimento che più spesso ho provato durante la lettura. Non si può non voler bene a Stoner e di conseguenza non si può accettare che lui viva la sua vita in uno stato di costante abbandono, con inettitudine e passività. Una vita umiliante, soprattutto quella con la moglie che lo priva di tutto.Arriva il momento di andare in pensione, ha 65 anni ormai e Lomax ha fretta di metterlo a riposo. Ma Stoner senza l’insegnamento sa di essere perso, quindi decide di continuare per altri due anni, il regolamento universitario permette di farlo. Se non fosse che, scopre di avere un tumore.



“...Oh Willy sei tutto consumato dentro”.  Dice Edith, quando lui se ne sta moribondo sul letto in veranda, una specie di ripostiglio dove lei lo ha rilegato molto prima della malattia e dopo avergli portato via l’amato studio, la stanza in cui Stoner lavorava, viveva e dormiva. Ecco cosa era successo davvero. Ce lo dice Edith con le sue parole sciatte e prive di tatto. Si era consumato dentro, il suo corpo non aveva tollerato il suo continuo sopportare, la sua incapacità di provare rabbia, silenzioso, giorno dopo giorno aveva lavorato fino a distruggersi. A volte anche un semplice urlo può essere liberatorio. A Stoner non è mai successo di urlare.Persino in previsione della morte, la moglie continua ad essere insensibile ed egoista, non usa mai mezzi termini, non si preoccupa mai di alleggerire quella condanna. La figlia vive una vita altrettanto infelice. Confessa al padre di essersi sposata solo per scappare da quella casa, di aver avuto un figlio solo per riuscire nell’impresa, e di essere anche un’alcolizzata. Quando Grace ritrova il padre ha venticinque anni ma ne dimostra dieci in più. È una donna distrutta, e a Stoner non rimane che “…essere lieto che avesse almeno quello, fu grato che potesse bere”.



Quando tutto è finito Stoner dal suo letto in veranda ripercorre le piccole conquiste della sua esistenza. Lo fa in un modo quasi impossibile. Come se in quel momento di distacco potesse avere la capacità di vedere ciò che i vivi non vedono. Il lettore percepisce questa sensazione trascendentale ed è come avere un’idea dell’impossibile, di ciò che attende tutti, prima o dopo. Williams attraverso le parole ha descritto ciò che con le parole non si può descrivere.Ciò che Stoner aveva voluto, ciò che aveva avuto. L’amicizia, un matrimonio che sapeva essere stato infelice dal primo giorno, “...nel giro di un mese Stoner realizzò che il suo matrimonio era un fallimento”; aveva avuto anche il vero amore, ma ci aveva rinunciato, infine aveva voluto essere un insegnante e lo era diventato, ma nonostante ciò, Stoner si era sempre considerato un insegnante mediocre.



Dentro di se, quando ad un certo punto le parole non escono più, Stoner non fa che ripetersi una domanda: cosa ti aspettavi? Cosa ti aspettavi?

“...Una morbidezza lo avvolse e un languore gli attraversò le membra. La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso, e sapeva cosa era stato”.Prende dal comodino un libro, è sbiadito, nella confusione degli ultimi attimi lo riconosce, è il suo, quello che aveva scritto anni prima, il suo piccolo contributo al mondo, l’unico ricordo che sarebbe rimasto dopo il suo passaggio.  “...E tuttavia, sapeva che una piccola parte di lui, che non poteva ignorare, era lì, e vi sarebbe rimasta. Aprì il libro, e mentre lo faceva, il libro smise di essere il suo”.



William Stoner di John Williams, 1965.

Edizione Italiana: febbraio 2012, Fazi Editore

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